giovedì 24 marzo 2022

L’evoluzione del concetto di “campo”

 Pag. 608

 

In antropologia il “campo” è il luogo in cui una cultura è prodotta e può essere osservata senza mediazioni dagli etnologi, che, all’interno dello spazio così delimitato, raccolgono i dati e costruiscono la loro ricerca.

Nella storia dell’antropologia, il concetto classico di “campo” è quello codificato nell’opera di Malinowski: un territorio circoscritto, di piccole dimensioni, in cui vive una comunità che ha elaborato una cultura originale e riconoscibile. In pratica l’unità di analisi è il villaggio oppure l’isola, la banda di cacciatori-raccoglitori, la tribù di pastori o la comunità agricola.

Questo concetto di campo si rivelò inadeguato a comprendere contesti sociali più ampi.

Nell’epoca attuale, il concetto classico di “campo” ha dovuto fare i conti con i flussi culturali e i processi di fusione tipici della globalizzazione.

George Marcus (1946) ha individuato l’emergere di un’etnografia multisituata, ovvero una ricerca che si svolge in più campi. L’etnografia multisituata è un tipo d’indagine etnografica che si svolge in più “campi”; secondo gli studiosi è un metodo adeguato a cogliere la diffusione della cultura nel mondo globalizzato.

I campi possono essere reali o virtuali. L’antropologo francese Jean-Loup Amselle (1942) sullo N’Ko, un movimento filosofico-religioso di rivendicazione dell’identità africana. Questo movimento è nato in Mali nel 1949 a opera di Souleymane Kanté (1922 – 1987), islamista e storico, famoso per aver inventato un metodo pratico di 

scrittura africana, da destra a sinistra, usando un alfabeto fonetico simile a quello latino. Per studiare lo N’Ko, Amselle ha lavorato sul campo in tre città: Bamako (Mali), Il Cairo (Egitto), Conakry (Guinea), e ha ricostruito la storia di una vasta area africana.

 

Da vicino e da lontano: i popoli studiati oggi

Anche se negli ultimi decenni si è sviluppata un’antropologia “del noi”, che osserva con lo sguardo distaccato le “tribù” di casa nostra, i popoli non ancora o solo marginalmente interessati alla modernizzazione sono sempre stati l’oggetto di studio preferito dagli antropologi.

Marc Augé (1935) ha più volte dichiarato che in Africa, come in Oceania o in 

America Latina, che ancora molto da studiare. Non è necessario recarsi in luoghi lontani per incontrare comunità che tuttora si avvalgono di antiche strategie di sopravvivenza: ad esempio la transumanza dei pastori praticata nelle regioni alpine, in Abruzzo e Sardegna. Si tratta di uno spostamento stagionale di mandrie o di greggi, che d’estate raggiungono zone ad alta quota che sarebbero impraticabili d’inverno. Si spostano solo alcuni uomini, mentre le famiglie rimangono nei villaggi per dedicarsi all’agricoltura.

Un’altra idea da rivedere è che non ci sia più niente da studiare in Africa o nell’America del Sud perché le culture native si sono contaminate al contatto con l’uomo bianco e hanno perso l’autenticità. Quello dell’autenticità è un mito eurocentrico, perché basta studiare un po’ di storia dell’America precolombiana o dell’Oceania per trovare casi frequenti di contatti culturali, prestiti, acculturazione o conquiste che hanno portato a dei mutamenti.

In realtà l’antropologia ha incorporato nel suo sapere la dimensione storica ed è interessata allo studio dei cambiamenti.

 

Una descrizione etnografica: i pigmei Bambuti

All’ultima delle sue fasi, la ricerca antropologica consiste nella redazione di una monografia o di un articolo scientifico.

La monografia etnografica è la base del sapere antropologico. È il punto di partenza delle comparazioni e delle sintesi teoriche contenute nei manuali o nelle trattazioni di storia dell’antropologia. Gli studiosi sostengono che scrivere una monografia etnografica significa compiere un lavoro di traduzione dalla forma della vita vissuta alla forma scritta.

La monografia etnografica classica descrive la vita di un popolo soffermandosi su alcuni aspetti. Un esempio di come si articola una descrizione etnografica sono i Pigmei Bambuti, un popolo della foresta, studiati da tre antropologi del Novecento.

Con il nome “Pigmei” si indica un insieme di popolazioni che vivono nelle foreste tropicali dell’Africa centrale. Considerati tra i più antichi abitanti del continente africano, sono di pelle piuttosto chiara e di bassa statura: mediamente gli uomini sono alti 140cm e le donne 130. Questa caratteristica è dovuta a un’anomalia ormonale che si è mantenuta con l’isolamento geografico.

Il gruppo più ampio e meglio conosciuto è appunto quello dei Bambuti. I Bambuti vivono nelle foreste vergini dello Zaire, nella Repubblica democratica del Congo. Il clima è caldo-umido con temperature medie tra i 25 e i 27°C. I Pigmei affascinano gli antropologi per lo straordinario adattamento all’ambiente fisico in cui vivono e la conoscenza profonda della foresta, affinata nei millenni di permanenza nella stessa regione.

I Bambuti sono cacciatori-raccoglitori. Per cacciare la selvaggina usano archi e frecce di legno con punte indurite nel fuoco e intinte nel veleno di serpente. La raccolta è praticata generalmente dalle donne, senza una rigida divisione sessuale del lavoro.

Dopo ogni battuta di caccia avviene il rito della spartizione della carne, che ha lo scopo di attribuire a ciascuno quello di cui ha bisogno. I Pigmei scambiano una parte dei loro prodotti con le popolazioni confinanti.

L’unità sociale di base per i Bambuti è la famiglia nucleare. Ogni famiglia vive in una capanna a cupola fatta con foglie, rami e fango; nell’accampamento le capanne sono disposte a cerchio attorno a uno spiazzo comunitario dove si conserva il fuoco.  La donna assolve tutti i compiti domestici, mentre l’uomo, se non caccia, trascorre il suo tempo nello spiazzo comune a conversare con altri uomini o a riparare le armi e gli attrezzi per la caccia.

I Pigmei sono monogami ed esogami e si sposano senza alcuna cerimonia, ma quando arrivano i bambini il nucleo diventa stabile. Prima di sposarsi hanno molte esperienze sessuali.

Più famiglie di Pigmei Bambuti costituiscono una banda. All’interno della banda vi sono ruoli diversi, ma non vi sono disuguaglianze. Emergono dei capi, ma privi di effettivo potere, con funzioni di consiglieri o rappresentanti presso altre tribù.

Se nascono dei conflitti, la loro risoluzione è affidata al parere degli anziani.

La coesione sociale è mantenuta dalla cooperazione nelle attività economiche, dalla spartizione della carne e dai legami di parentela.

 

 

 

 

Che cosa si intende per “campo” di ricerca?

-       In antropologia il “campo” è il luogo in cui una cultura è prodotta e può essere osservata senza mediazioni dagli etnologi, che, all’interno dello spazio così delimitato, raccolgono i dati e costruiscono la loro ricerca.

 

In che cosa consiste l’”etnografia multisituata”?

-       L’etnografia multisituata è un tipo d’indagine etnografica che si svolge in più “campi”; secondo gli studiosi è un metodo adeguato a cogliere la diffusione della cultura nel mondo globalizzato.

 

Quali sono attualmente i popoli studiati dall’antropologia?

-       I popoli non ancora o solo marginalmente interessati alla modernizzazione sono sempre stati l’oggetto di studio preferito dagli antropologi.

Marc Augé (1935) ha più volte dichiarato che in Africa, come in Oceania o in America Latina, che ancora molto da studiare. Non è necessario recarsi in luoghi lontani per incontrare comunità che tuttora si avvalgono di antiche strategie di sopravvivenza: ad esempio la transumanza dei pastori praticata nelle regioni alpine, in Abruzzo e Sardegna.

 

Che cos’è una monografia etnografica?

-       La monografia etnografica è la base del sapere antropologico. È il punto di partenza delle comparazioni e delle sintesi teoriche contenute nei manuali o nelle trattazioni di storia dell’antropologia. Gli studiosi sostengono che scrivere una monografia etnografica significa compiere un lavoro di traduzione dalla forma della vita vissuta alla forma scritta.

La monografia etnografica classica descrive la vita di un popolo soffermandosi su alcuni aspetti.

 

Come vivono i Pigmei Bambuti?

-       I Bambuti sono cacciatori-raccoglitori. Per cacciare la selvaggina usano archi e frecce di legno con punte indurite nel fuoco e intinte nel veleno di serpente. La raccolta è praticata generalmente dalle donne, senza una rigida divisione sessuale del lavoro.

Dopo ogni battuta di caccia avviene il rito della spartizione della carne, che ha lo scopo di attribuire a ciascuno quello di cui ha bisogno. I Pigmei scambiano una parte dei loro prodotti con le popolazioni confinanti.

L’unità sociale di base per i Bambuti è la famiglia nucleare. Ogni famiglia vive in una capanna a cupola fatta con foglie, rami e fango; nell’accampamento le capanne sono disposte a cerchio attorno a uno spiazzo comunitario dove si conserva il fuoco.  La donna assolve tutti i compiti domestici, mentre l’uomo, se non caccia, trascorre il suo tempo nello spiazzo comune a conversare con altri uomini o a riparare le armi e gli attrezzi per la caccia.

I Pigmei sono monogami ed esogami e si sposano senza alcuna cerimonia, ma quando arrivano i bambini il nucleo diventa stabile. Prima di sposarsi hanno molte esperienze sessuali.

Più famiglie di Pigmei Bambuti costituiscono una banda. All’interno della banda vi sono ruoli diversi, ma non vi sono disuguaglianze. Emergono dei capi, ma privi di effettivo potere, con funzioni di consiglieri o rappresentanti presso altre tribù.

Se nascono dei conflitti, la loro risoluzione è affidata al parere degli anziani.

La coesione sociale è mantenuta dalla cooperazione nelle attività economiche, dalla spartizione della carne e dai legami di parentela.

martedì 22 marzo 2022

10 canoe

Ten Canoes è un film del 2006 diretto da Rolf de Heer e Peter Djigirr e interpretato da Crusoe Kurddal. Il titolo del film nacque da una discussione tra de Heer e David Gulpilil su una fotografia di dieci canoisti che attraversavano la palude di Arafura, scattata dall'antropologo Donald Thomson nel 1936. È il primo film interamente girato nelle lingue aborigene australiane. Il film è in parte a colori e in parte in bianco e nero, in stile docudrama in gran parte con un narratore che spiega la storia. Il formato complessivo è quello di un racconto morale.

Il film è ambientato nella Terra di Arnhem, in un tempo separato dall'influenza occidentale, e racconta la storia di un gruppo di dieci uomini in un contesto di caccia tradizionale. Il leader del gruppo, Minygululu, racconta al giovane Dayindi (Jamie Gulpilil) la storia di un altro giovane ancora più indietro nel tempo che, come Dayindi, bramava la moglie più giovane del fratello maggiore. Le sequenze con Dayindi e la caccia sono in bianco e nero, mentre gli scatti ambientati in un lontano passato sono a colori. Tutti i protagonisti parlano in lingue indigene del gruppo linguistico Yolộu Matha, con sottotitoli. Il film è narrato in inglese da David Gulpilil, anche se sono disponibili versioni del film senza narrazione, e con narrazione in Yol'u Matha.

Minygululu racconta la storia del grande guerriero Ridjimiraril, che sospetta che uno straniero in visita abbia rapito la sua seconda moglie. In caso di scambio di identità, Ridjimiraril uccide un membro di una tribù vicina. Per prevenire una guerra totale, le leggi tribali impongono che la tribù offesa permetta al colpevole di essere trafitto a distanza da individui della tribù dell'uomo ucciso. Il colpevole può essere accompagnato da un compagno, e in questo caso prende suo fratello minore, Eralparil. Ogni volta che uno dei due viene colpito, i lanciatori di lance si fermeranno e giustizia sarà fatta. Ridjimiraril viene colpito e ferito mortalmente, ma sopravvive abbastanza a lungo per tornare al suo campo, dove è curato dalla moglie maggiore. Quando sa che sta morendo, esegue una danza rituale e una volta morto i suoi capelli sono tagliati e il suo corpo è dipinto per consentire agli spiriti ancestrali di guidarlo verso il mondo successivo.


La seconda moglie rapita del fratello maggiore trova la strada per tornare al campo. Lei rivela che era stata rapita da una tribù diversa, molto più lontano e aveva preso questo tempo per tornare. Piange il marito perduto, che aveva attaccato la tribù sbagliata, anche se ora lei e la moglie maggiore prendono il fratello minore come nuovo marito. Il fratello minore, che era interessato solo al più giovane delle tre mogli, ora deve prendersi cura di tutti loro, e soddisfare le loro molte richieste sarà chiaramente molto di più di quanto avrebbe voluto.

Minygululu racconta questa storia nella speranza che Dayindi apprenda delle responsabilità aggiuntive di un marito e di un anziano statista nella tribù, e alla fine vediamo Dayindi ritirarsi dalla sua ricerca della giovane moglie di Minygululu.

Dieci Canoe ha strati complessi di insegnamento morale. La storia mitica è raccontata a beneficio di Dayindi, ma la storia tribale è raccontata a beneficio del pubblico, per insegnare a tutti noi come "vivere in modo corretto". Le conseguenze di Ten Canoes, è la prova che le storie, nel loro raccontare, può cambiare la vita. 

 

L’antropologo al lavoro

 La professione dell’antropologo comprende molte tematiche: l’osservazione delle malattie, l’analisi dei sistemi di parentela, la decifrazione di antiche scritture, la comparazione di miti e leggende, lo studio di scheletri di ominidi, l’interpretazione della magia e della stregoneria. L’antropologo fa propri gli interessi di tutte le altre scienze dell’uomo, riservando per sé una quota maggiore di libertà e coraggio.




Il lavoro dell’antropologo si basa su un lavoro etnografico sul terreno che costituisce la specificità operativa dell’antropologia. Nessun’altra disciplina contempla una presenza così durevole e costante del ricercatore sul campo a contatto con i nativi, su cui lo studio condivide la vita quotidiana e la mentalità. Le indagini di sociologia e psicologia sociale sono mediamente più rapide di un’indagine antropologica.

L’importanza del lavoro sul campo si connette direttamente al contesto: per gli antropologi gli elementi di una cultura possono essere adeguatamente compresi e correttamente valutati soltanto se vengono situati nel loro contest di appartenenza. Ne erano consapevoli già gli autori classici, in particolare Malinowski (1884 – 1942), che riteneva indispensabile afferrare il punto di vista dell’indigeno, per rendersi conto della sua visione del suo mondo.

 

La ricerca sul campo

La ricerca antropologica di solito comprende:

-       Una prima fase empirica e osservativa di lavoro sul campo

-       Una fase di interpretazione dei dati raccolti

-       Un’ultima fase di redazione di una monografia o di un articolo scientifico.

Nel corso dell’indagine sul campo l’antropologo utilizza metodi di tipo osservativo. 

L’osservazione può essere:

-       Semplice:

L’antropologo utilizza i propri sensi senza ricorrere agli strumenti 

-       Attrezzata:

L’antropologo si serve di una strumentazione che può comprendere macchina fotografica, videocamera, registratore vocale, strumenti di misura e rilevazione.

-       Esterna:

Il ricercatore si pone all’esterno o ai margini della popolazione studiata e si lascia avvicinare gradualmente dai suoi membri

-       Interna o partecipante:

Il ricercatore condivide la vita della popolazione studiata, cerca di entrare nella mentalità dei suoi membri e di assumere il loro punto di vista. L’osservazione partecipante ha un carattere “artigianale” e richiede doti particolari di immaginazione, intuizione e capacità di relazionarsi con gli altri.

L’indagine antropologica può svolgersi in molti scenari diversi: in un villaggio amazzonico, nella regione artica, nelle periferie. Non conta la distanza geografica, ma la distanza culturale tra l’osservatore e la realtà studiata. L’antropologo dovrebbe provare un senso di estraneità e di spaesamento simile a quello che proverebbe al primo contato con popolazioni di altri continenti.

L’antropologo deve adottare quello che è chiamato sguardo da lontano, con cui si allude al distanziamento psicologico che consente all’antropologo di cogliere il senso unitario e le connessioni interne della cultura presa in esame, mantenendo uno sguardo distaccato e obiettivo.

Il metodo di ricerca più diffuso tra gli antropologi è l’osservazione partecipante, che prevede un’immersione dello studioso nella società presa in esame. Essa fu codificata e proposta come metodo scientifico dall’antropologo britannico Bronislaw Malinowski.

 

Malinowski alle Trobriand: un modello di ricerca

Durante la Prima guerra mondiale Malinowski soggiornò a più riprese nelle isole Trobriand in Nuova Guinea, abitato de una popolazione di papuo-melanesiani.

La prima spedizione durò 7 mesi, la seconda e la terza 12 mesi ciascuna. Malinowski imparò la lingua locale e si dedicò all’osservazione della vita sociale degli indigeni in tutti i suoi aspetti. Nasce un’opera incentrata sulla descrizione del kula, un sistema di scambi circolari assai esteso tra isole e alcune località della terraferma. Nel kula erano scambiati collane e bracciali privi di utilità pratica, secondo regole di 

reciprocità, in quanto questo rituale non è primariamente un’attività economica, ma un’istituzione sociale, per mantenere rapporti e obblighi reciproci tra persone di società diverse.

 

Le caratteristiche del lavoro sul campo

Si avverte l’impegno da Malinowski per distinguere l’antropologo da missionari, mercanti, funzionari governativi. Nessun fisico o chimico, scrive Malinowski, si sognerebbe di condurre una ricerca senza fornire un resoconto dettagliato dei metodi seguiti, degli strumenti adoperati e delle condizioni in cui sono state condotte le osservazioni. Allo stesso modo, è opportuno che gli antropologi rendano esplicite le loro procedure e chiariscano le finalità delle loro ricerche. L’antropologo si deve avvicinare agli indigeni con il massimo rispetto per le loro usanze.

I principi metodologici dell’etnologia possono essere riuniti in 3 categorie principali:

1.    Lo studioso deve avere un obiettivo scientifico ben preciso;

2.    Deve individuare condizioni appropriate per il proprio lavoro;

3.    Deve applicare metodi adeguati di raccolta, elaborazione e sintesi dei dati.

L’obiettivo scientifico a cui fa riferimento Malinowski è l’analisi dell’organizzazione sociale degli indigeni; la condizione più appropriata è la vita a stretto contatto con gli indigeni.

Sui colloqui con gli informatori, che sono il secondo metodo di raccolta delle informazioni dopo l’osservazione diretta, Malinowski fa due raccomandazioni: imparare la lingua locale e adeguare le domande alla mentalità degli indigeni. 

Durante i suoi soggiorni alle Trobriand, l’antropologo studiò vari aspetti della vita sociale degli isolani osservando direttamente e servendosi della collaborazione di informatori. Gli informatori sono persone molto importanti per la riuscita di un’indagine etnografica. È il governo locale a offrire degli specialisti bilingui che svolgono opera di mediazione tra il ricercatore e gli abitanti del luogo; altre volte è l’antropologo ad accorgersi che alcuni uomini sono autentiche miniere di notizie. Lo aveva capito anche Claude Levi-Strauss con un giovane bororo che parlava il portoghese e che gli spiegò tutti gli aspetti della vita sociale del suo popolo. La testimonianza dell’informatore, tuttavia, deve essere vagliata attentamente: può accadere che si tratti di una persona interessata a dare una certa immagine della propria cultura.

Per la raccolta dei dati Malinowski usava gli strumenti dell’epoca: carta, matita e macchina fotografica; per la loro elaborazione sintetica riteneva di grande utilità le tavole riassuntive sinottiche, nelle quali con un colpo d’occhio è possibile cogliere un quadro della situazione; ad esempio, le genealogie.

Malinowski enuncia l’obiettivo finale di ogni ricerca etnografica:

Afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita, rendersi conto della sua visione del suo mondo. Bisogna studiare l’uomo e ciò che lo riguarda più intimamente. In ogni cultura troviamo istituzioni diverse con costumi diversi, codici di leggi e di morale. 

 

 

 

 

 


 

 

Quali sono i metodi di ricerca più usati in antropologia?

-       Ci sono tre metodi di ricerca: L’osservazione, lo sguardo da lontano e l’osservazione partecipante. L’osservazione può essere:

Semplice:

L’antropologo utilizza i propri sensi senza ricorrere agli strumenti 

Attrezzata:

L’antropologo si serve di una strumentazione che può comprendere macchina fotografica, videocamera, registratore vocale, strumenti di misura e rilevazione.

Esterna:

Il ricercatore si pone all’esterno o ai margini della popolazione studiata e si lascia avvicinare gradualmente dai suoi membri

Interna o partecipante:

Il ricercatore condivide la vita della popolazione studiata, cerca di entrare nella mentalità dei suoi membri e di assumere il loro punto di vista. L’osservazione partecipante ha un carattere “artigianale” e richiede doti particolari di immaginazione, intuizione e capacità di relazionarsi con gli altri.

 

Che cosa distingue l’osservazione partecipante da altri metodi?

-        Il metodo di ricerca più diffuso tra gli antropologi è l’osservazione partecipante, che prevede un’immersione dello studioso nella società presa in esame.

 

In che cosa consiste lo “sguardo da lontano”? tipico nell’antropologia?

-       L’antropologo deve adottare quello che è chiamato sguardo da lontano, con cui si allude al distanziamento psicologico che consente all’antropologo di cogliere il senso unitario e le connessioni interne della cultura presa in esame, mantenendo uno sguardo distaccato e obiettivo.

 

Quali sono, secondo Malinowski, i principi metodologici dell’etnografia?

-       I principi metodologici dell’etnologia possono essere riuniti in 3 categorie principali:

1.    Lo studioso deve avere un obiettivo scientifico ben preciso;

2.    Deve individuare condizioni appropriate per il proprio lavoro;

3.    Deve applicare metodi adeguati di raccolta, elaborazione e sintesi dei dati.

 

Quali suggerimenti offre Malinowski riguardo ai colloqui con gli informatori?

-       Sui colloqui con gli informatori, che sono il secondo metodo di raccolta delle informazioni dopo l’osservazione diretta, Malinowski fa due raccomandazioni: imparare la lingua locale e adeguare le domande alla mentalità degli indigeni.

Durante i suoi soggiorni alle Trobriand, l’antropologo studiò vari aspetti della vita sociale degli isolani osservando direttamente e servendosi della collaborazione di informatori. Gli informatori sono persone molto importanti per la riuscita di un’indagine etnografica.

Stato moderno

Pag. 460   L’attributo fondamentale dello Stato moderno è la sua sovranità: con il termine si indica un potere sommo, da cui derivano tutti ...